Nella primavera del 1973 la nota giornalista Neera Fallaci (1932 – 1984) stava lavorando alla sua biografia di Lorenzo Milani (1923 – 1967), pubblicata poi l’anno seguente [1]. Avendo saputo da Alice Milani, madre di Lorenzo, che lui, appena diciottenne, aveva deciso di diventare pittore e frequentato per un breve ma intensissimo periodo, da maggio a settembre 1941, lo Staude come maestro, Neera prese contatto con Staude per raccogliere i suoi ricordi di quella storia già allora ormai lontana. Lo incontrò in un ospedale fiorentino, gravemente ammalato.
Il testo che qui segue, e che Neera adoprò per il suo libro, è la trascrizione letterale di quanto fu detto e registrato in quell’occasione: Neera, dopo la morte di Staude, avvenuta nel luglio di quell’anno, ne lasciò una copia dattiloscritta alla famiglia.
HJS: Nella primavera del 1941 mi fu portato dal professor Giorgio Pasquali il ragazzo Lorenzo Milani, allora diciassettenne, del quale non sapevo niente. Pasquali mi disse che era il figlio di un suo amico Albano Milani e che questo Milani era il nipote di Domenico Comparetti, che era stato un grande umanista (questo non c’entra molto). In ogni modo, Giorgio Pasquali mi presentò questo Lorenzo Milani come scolaro. Io conobbi un ragazzo, direi, tipicamente di famiglia benestante, molto aperto a tutte le cose, intellettuale in un certo senso, con una grande naturalezza ma cortese, sempre gentile. Una bella figura… slanciato e simpatico. Ed evidentemente di una grande intelligenza. Mi fu portato perché Lorenzo Milani dopo l’esame di maturità aveva dichiarato, con la più grande sorpresa dei suoi genitori, di voler fare il pittore. Non ne aveva mai accennato prima. E dunque trovai in questo giovane diciasettenne una grande impreparazione. Non aveva mai disegnato: io gli feci fare il primo disegno della sua vita. Comprendendo che era uno studente prima di tutto intelligente, incominciai a parlargli spesso, subito… dell’essenziale. Non mi accontentavo di correggergli un disegno dicendogli: “Questa mano è troppo lunga, eccetera”, ma gli dicevo da che cosa doveva partire. Cioè gli parlavo della scelta di tutto quanto è essenziale. Gli parlai della semplificazione. Gli parlai dell’unità che deve regnare in ogni lavoro: sia pittura che disegno. E lui capì queste cose al volo. E ci metteva moltissimo lavoro per realizzarle. Per me fu una cosa memorabile, questo ragazzo avido di vita, dopotutto, che si chiudeva nello studio quattro, cinque, sei ore, e non faceva che disegnare un manichino di legno. Io la sera, tornando a questo studio trovavo un mucchio di fogli coperti di questi disegni. E presto lui aveva capito la lezione, ma io mi sentii molto insoddisfatto. Rimaneva in questi disegni una specie di freddezza. Non mi convinceva come scolaro. Aveva capito tutto quanto intellettualmente, ma gli mancava un’immediatezza.
In questa estate, sempre del 1941, lui ci raggiunse al Lago Maggiore, dove mia moglie aveva da fare come architetto. E lui diventò membro della nostra famiglia. E si lavorò sempre insieme.
NF: Dove aveva lo studio quando Lorenzo divenne suo scolaro?
In via de’ Serragli, a Firenze. Io sto a Firenze dal 1925. Sono veramente un fiorentino di adozione. Venne lì per le vacanze. E io l’osservavo. E mi accorsi che sempre metteva il cavalletto accanto al mio. Io cercavo di cacciarlo, dicendogli: “No, cercati da te il tuo soggetto! Voglio che tu parta da una sensazione tua, che tu non t’imbarchi nella mia barca.” Però non riusciva in quel momento a scegliere qualcosa da sé. Poi, non so esattamente dopo quanto tempo, ma credo dopo otto o nove mesi pressappoco, forse un anno intero: non lo so, lui tornò a Milano. E continuò a disegnare da solo, prendendo come modelli tutti questi ragazzi. Lui era sempre circondato di tanti ragazzi, con i quali in certi momenti faceva dello sport. Era uno sportivo. Uno sportivo strano, che giocava molto anche agli scacchi, che discuteva con delle persone competenti della Divina Commedia, eccetera; ma aveva sempre questo desiderio di vivere in una comunità, direi. Molto non so di questo soggiorno a Milano. So che lui conobbe, perché era vicino di studio, Bruno Cassinari che dopo è diventato abbastanza famoso. L’ha menzionato una volta.
Dopo qualche mese ebbi una lettera di Lorenzo Milani. Eravamo diventati amici, ci davamo del tu, insomma era veramente una buona amicizia. E mi scrive, in questa lettera che era piena di notizie di altro genere, che aveva conosciuto una ragazza che gli parlava molto della liturgia. Poi parlava di altre cose. E, nel postscriptum di questa lettera, diceva: “Tra poco mi farò frate”. Io lo presi come una boutade, come uno scherzo. Non toccai neanche questo punto nella mia risposta. Nella lettera successiva c’era già la comunicazione che lui era deciso di farsi prete e di andare al seminario. Poi, e questo glielo racconto volentieri, quando io lo vidi la prima volta, già seminarista, quando lo vidi proprio la prima volta dopo questo grande cambiamento, dissi: “Ma Lorenzo, dimmi un po’ come mai questo cambiamento?” Perché lui, prima, era stato molto lontano da quello che è, diciamo, preti e Chiesa; e lui mi dette questa indimenticabile risposta: “È tutta colpa tua! Tu hai parlato di cercare sempre l’unità, di cercare l’essenziale, di semplificare, di vedere le cose insieme. E, a me, non mi basta di fare questo su un pezzo di carta. Io ho voluto regolare la mia vita in questo senso.”
Fu in quel periodo che si avvicinò all’arte sacra?
No, non sapevo neanche che lui si fosse avvicinato all’arte sacra… di quello sono rimasto all’oscuro. Diciamo che alla base del mio insegnamento c’erano applicazioni di quello che ho detto dianzi. Non sapevo. Non me ne ha mai parlato. Assolutamente no. In fondo, da quando lui è diventato seminarista, ci siamo parlati pochissimo. Quando aveva la scuola popolare a San Donato, eravamo in ottimi rapporti e una volta mi chiese di andare e di fare a questi ragazzi una conferenza sulla fuga di Bach. E fu una cosa spassosissima questa curiosità, quest’avidità… una cosa indimenticabile.
Se lo ricordano ancora: lei suonava al piano, vero?
(Ride.) Ah, sì, sì. Dopo, a Barbiana, gli ho fatto qualche visita; ma era difficile per me, perché ero abituato a essere io quello che comunicava a lui. E lui non era più curioso di quello che io volevo comunicargli. E in fondo io non ero molto curioso di quello che capivo da lui. Insomma… non fu molto facile l’incontro. Di fatti, amici miei come Giorgio Falossi, che sono diventati fervidi ammiratori e seguaci di Lorenzo Milani, l’hanno poi visto molto più spesso di quanto abbia fatto io. Era strano questo rovesciamento della posizione…
Era diventato lui maestro.
(Ride.) Sì, però io non lo volevo come maestro. Perché lui aveva da insegnare una cosa che non mi toccava. Perché… ora le parlo del tutto liberamente. Io ancora mi meraviglio che quest’uomo sia entrato nella Chiesa. Io, con la sua figura… l’avrei preferito senza tutte queste cose con cui ha dovuto urtarsi, come abbiamo visto, no? Per cui ha sofferto molto. Io ho portato anche degli amici a Barbiana, e tutti dicevano: “Che magnifica figura! Ma perché è là dentro?”
Perché non è comprensibile come abbia potuto farsi prete?
È incomprensibile… No, è comprensibile al momento che si prende la religione completamente sul serio. Ma visto quello che abbiamo come spettacolo della Chiesa… E questo voler starci, nonostante ciò, dentro era per me una cosa difficile da capire. Lorenzo invece, questo lei lo sa, era ammirevole quando era su a Barbiana: circondato da questi ragazzi, da questo amore che ognuno aveva per lui… Veramente un amore. C’era intorno a lui questa calda atmosfera di amore, la più bella fortuna che ci possa essere.
Lei mi diceva che Lorenzo, da ragazzo, amava già avere intorno a sé un gruppo.
Io allora non l’ho mai visto in questi gruppi, perché li aveva intorno a sé a Milano. A Firenze io l’ho visto soltanto come scolaro mio. Ma qualche volta sentivo che a lui, quando lavorava con me allo studio, mancava probabilmente quella eco che potevano avere per lui questi giovani.
Con lei ascoltava molto, o polemizzava?
Molto, molto: ascoltava molto. Non mi sono mai sentito in polemica con lui; ma avrebbe dovuto insistere più a lungo per arrivare al punto di poter combattere…, discutere. Io, nel tempo che sono stato assieme a lui, mi sono sempre sentito il maestro.
Parlavate tedesco?
No, no, italiano. Lui sapeva parlare il tedesco, ma poco: non credo si parlasse…
Aveva una scuola nel suo studio?
Non ho una scuola. Ho uno studio e ammetto i giovani a lavorare con me. E quando uno è un completo principiante, gli do, appunto, un manichino perché è più facile che con la figura umana. E lui disegnava anche figure, teste eccetera. In quel periodo avevo ancora relativamente pochi studenti e credo che lui, spesso, sia stato solo con me… No, no, c’erano anche altre due o tre persone.
Lorenzo scriveva a un amico di Milano che Lei aveva per modelli dei bellissimi ragazzi…
Sì, si, ne avevo… Mi ricordo che c’era il garzone del macellaio [Felice], che aveva una testa stupenda. Forse si riferisce a questo. Un profilo perfetto.
Le modelle lo interessavano meno, può darsi? Mi dicono che non le accettasse per la loro…
Aggressività. Sì, sì. È proprio un punto… Io l’ho visto sempre in compagnia di ragazzi. Assolutamente. Lui era predestinato a finire o in un convento o in un esercito. Insomma, un uomo che doveva stare tra gli uomini senz’altro. E vedevo che anche le scolare sue non avevano mai questa vicinanza che potevano avere i ragazzi…
(Modelle…)
… nel clima del mio studio non gli successe mai. E fino a che punto sia stato vero per il clima del suo studio a Milano, non lo so…
(Suoi dipinti…)
… Uno bisogna che osservi i rapporti fra questo e quest’altro, in modo che nasca lo spazio. E, al momento che nasce lo spazio, anche una natura morta diventa una parte dello spazio, e anche dell’infinito spazio…
Paesaggio che ha don Nesi: molto tenui grigi, verdi, rosa…
Molto tenui. Descrive la mia tavolozza: grigio, rosa… proprio…
Dunque imitava lei.
No. No. Questo non è vero, no. Lui ha fatto, stando accanto a me, in Via delle Campora dove io sto di casa, una cosa [un quadro, v. Fig. 3]… Il mio non ce l’ho più, l’ho venduto. Questo… [quadro di Lorenzo] pregai la signora Milani di lasciarmelo. Me l’ha dato in prestito ma io ce l’ho come di mia proprietà. E questo è un quadro dove c’è tutta una forza sua. Sono dei muri fiorentini con solo olivi, ombra niente, una cosa molto semplice. Se venisse una volta in Via delle Campora, glie lo farò vedere…
(La madre)
In fondo le piace comunicare. C’è questo rapporto tra la madre e lui.
(Giorgio Parsquali)
Giorgio Pasquali per me non era un amico ma un’autorità. Lui era professore, io avevo trentasei anni. Pasquali era un uomo famoso, mi onorava della sua amicizia. Eravamo stati qualche volta insieme sul Monte Morello. E poi lui aveva questa curiosità verso di me perché tedesco, e lui parlava tedesco. Questa era una ragione. Lui, amico della famiglia Milani, mi presentò questo figlio del suo amico. Lui conosceva la mia pittura, sapeva che insegnavo… Era una bella prova di fiducia in quel momento.
Aveva “sei” in Storia dell’arte…
In disegno certamente non era da “sei”. Insomma, quando si ha una passione… Il mio punto di partenza, quando io parlo di pittura a uno scolaro, non ha nulla da fare con la storia dell’arte.
Ma c’è un’emozione verso l’arte…
Sì, ma già indiretta. Quando si disegna davanti a un soggetto, si deve dimenticare tutta la Storia dell’arte. Dopo, a poco, a poco… perché queste cose che le dico, anch’io le ho imparate davanti a opere d’arte… la semplificazione, l’essenzialità, eccetera, per me sono i risultati di un lungo studio. Insomma, con uno scolaro, parlo raramente di Storia dell’arte. No, io non posso dire di aver trovato in lui un amore più grande per l’arte che per la letteratura. A me sembrava sempre un ragazzo indirizzato verso la letteratura. Mi ricordo, lassù al Lago Maggiore lui leggeva con entusiasmo D’Annunzio.
Era molto estetizzante come gusti… discussioni raffinate…
No, no. Approfondiva sempre. Non era un estetizzante. Parlava per capire meglio. Mai per parlare, per formulare elegantemente, mai… C’era questa grande sobrietà in lui.
Quindi c’erano già dei comportamenti ai quali sarebbe stato poi coerente…
Io credo veramente che quella frase che lui mi disse esprima tutto: “È colpa tua”. Indimenticabile. “È colpa tua. Tu mi hai parlato di cercare quello che è essenziale, di eliminare i dettagli, di vedere le cose nella loro unità, dove ogni parte dipende dall’altra… I rapporti non li voglio più cercare soltanto fra colori, ma fra persone nel mondo e nella mia vita, cioè nel rapporto fra me e il mondo: allora ho trovato un’altra strada.” È stata una conversazione, dopo che mi aveva scritto di volersi fare prima frate e poi prete. Dopo non ci siamo più parlati né scritti. Poi lo rividi come seminarista. E finalmente ho avuto l’occasione di domandargli: “Ma come mai?”, e quella è stata la sua risposta.
Dove lo rivide?
Probabilmente è venuto a casa mia. È venuto a casa mia, certamente. Nel primo periodo del seminario era ancora vicino alla pittura: si capisce dal modo in cui descrive abiti talari, cerimonie… L’occhio del pittore… A questo poi ha completamente rinunciato… È una parola un po’ arrischiata, ma in fondo era un ragazzo sensuale abbastanza, per sentire il godimento del colore.
Ne ha parlato lei, a Barbiana, del colore?
Poco. A Barbiana ho parlato pochissimo.
Che cosa ricorda del suo amore per il colore?
Poco. Ai ragazzi di Barbiana diceva sempre che era tutta farina mia. L’altro giorno mi diceva Giorgio Falossi che, credo addirittura verso la fine, Lorenzo disse: “Guardate come sono verdi i capelli di Giorgio.” Allora Giorgio rimase molto perplesso perché gli avevo dipinto un ritratto dove avevo usato come preparazione del rosso-verde. L’occhio di una persona non preparata per la pittura rimane sorpreso da tutto quel verde. Non avrei dei ricordi…
(Lettere…)
Mi viene in mente… Seppi dalla signora Milani, quando era ancora vivo il marito, che lei e il marito erano una coppia che non aveva ma lasciato passare una giornata senza scriversi. Viaggiava spesso, il padre, per affari. E non c’era mai stata giornata che non avesse scritto. La continuità nello scrivere di Lorenzo mi ricorda questo.
… Si firmava in una maniera curiosa: “Lorenzino dio e pittore”
(Ride.) Lo riconosco. Mi fa venire in mente lui, è tanto lui. Spirito, proprio. Con queste cose… paradossali… No, è molto rassomigliante a lui, questo, ma non mi fa venire in mente niente. Mi accorgo, ora che lei mi sta interrogando, che in fondo, durante questi periodi che ho passato con lui, io ero sempre molto preso dal mio lavoro. E non sentivo molta curiosità per lo scolaro. Sicché non ho fatto tanta attenzione.
Lei è religioso, signor Staude? C’è un prete catalano che lo ha scritto.
Direi di no… Sono veramente un uomo che è molto lontano dal Cristianesimo, sempre più lontano, molto simpatizzante col mondo del pensiero dell’Oriente. Io, in un momento di grande difficoltà e di smarrimento ho avuto un enorme aiuto da un libro che parlava di quegli esercizi spirituali dell’est – che poi sono diventati per me una parte importante della mia vita. Il buddismo, insomma. Esercizi di respirazione, di auto-tranquillizzazione, che ho anche comunicato ad altri, e che, per me, sono molto essenziali. Mi mettono in un contatto diretto con quello che è essenziale. C’è una frase di Meister Eckhart, uno dei mistici del Trecento in Germania, che dice: “Non pregare, ascoltare”. E questo “ascoltare”, invece di pregare… Se mi capisce, questo ascoltare… che ci sia tutto e che basti saper trovarlo in sé.
Comunicava questi pensieri a Lorenzo Milani?
Questi pensieri mi si sono chiariti più tardi.
Chissà quanti pensieri suoi sono stati assimilati da Lorenzo Milani…
Sì, probabilmente. Veramente, quando quella volta mi disse quella frase [“è colpa tua”] ebbi un sussulto. Ero molto contento. Trovai che avevo fatto bene. Anzi mi sentii battuto. Capii che lui aveva fatto un passo più vasto, più grande del mio, ma che io non volevo imitare.
Allora erano le sue parole che Lorenzo ripeteva quando parlava di Piero della Francesca, Giotto, Masaccio, degli Impressionisti avvicinandoli all’arte sacra.
Certo, sì, sì. Guardi, ora sento per quale ragione dianzi ho esitato, quando lei è venuta fuori con le parole “pittura sacra”. Io non ho mai parlato con lui della pittura sacra. Per me, il mio scopo è far diventare sacra la realtà come mi circonda. Cioè rappresentare un individuo con la stessa profondità con la quale Giotto rappresentava un santo; ma il santo è in noi tutti, la santa è in noi tutti. E questo è un modo di vedere che è molto diverso dal modo impressionista o ottocentesco o macchiaiolo. Loro evitano questa solennità.
E da questo tipo di lezione è partito Milani per cercar di capire…
Sì, sì, sì. Ma con lui di arte sacra… È una parola che non uso.
Però gli avrà parlato di quegli artisti…
Sì, sì; ma è quasi casuale che questi abbiano fatto della pittura sacra. Perché loro… a quei tempi… Lo stesso senso sacrale ci può essere in una figura di Rembrandt, per esempio. Questo senso sacrale della vita, sì, questo Lorenzo… Del resto è la prima volta che dico queste cose. Le dimentichi! (Ride.)
È evidente che è partito dalle sue idee sull’arte… Per lei erano tutti punti di arrivo, per lui furono punti di partenza.
Se no, non avrebbe detto questa frase: “Sei stato te… È stata colpa tua se ora sono diventato…” È tutto un periodo piuttosto oscuro.
Chissà come mai prima aveva pensato a farsi frate e poi a farsi prete…
E questo in due lettere che non erano più distanti di cinque settimane. Mi scriveva da Milano. Era nel periodo in cui lavorava in quello studio accanto a Cassinari, ma tutto casualmente. Mi disse: “Senti, ho incontrato uno che m’interessa abbastanza come individuo. Fa una pittura strana ma m’interessa lo stesso. Lo vedo qualche volta… non diciamo come amico scelto: proprio casuale… coinquilino.” Credo che stessero sullo stesso pianerottolo. Ebbi, almeno, questa impressione.
(Bruno Cassinari)
Lorenzo mi scrisse che aveva conosciuto Cassinari, non so fino a che punto l’abbia avvicinato. Perché Cassinari ha preso una via completamente in contrasto con quello che ho voluto fare io. Lui è diventato uno dei pittori alla moda… qui si esce… Io ero stato scolaro di un Tedesco, impressionista [Hugo Ernst Schnegg], che alla lunga non mi soddisfaceva. Prima, quando avevo 16-17 anni, avevo lavorato come espressionista completamente all’avanguardia, ecc.… Poi cambiai… Da allora mi sono dato da fare soltanto a studiare davanti al vero. E poi, per me, il grande momento fu quando una volta ad Arezzo vidi gli affreschi di Piero della Francesca. Davanti a Piero della Francesca capii che era questo che volevo fare: un mondo pieno di realtà, capito fino all’ultimo…, che tuttavia non apparteneva a quella trasposizione, a una sfera che era qualcosa di più della realtà – e che poi ho ritrovato in Giotto, Masaccio. Per questo la parola “impressionista” non mi soddisfa. Perché l’impressionista si affida proprio all’impressione, prende quasi la crema delle cose. Quando uno è grande, arriva anche in fondo… Insomma, l’impressionismo fa pensare a un’arte prettamente sensuale, fugace. Invece io dell’impressionismo ho voluto studiare, ho voluto digerire quella grande lezione del colore, che Cézanne, Monnet e tutta questa gente ci ha dato. E guai a chi non ascolta. Per esempio, un uomo come Annigoni non ha mai capito che cosa gli impressionisti hanno dato alla grande pittura. È andato avanti come se non ci fossero stati… (Questo non vale! Mai avrei detto questo prima. Se voglio dire che cosa voglio… Ma quasi dispiace dire cose che non erano in programma.) Insomma, i miei due entusiasmi sono stati: quello davanti al mondo dell’affresco, proprio perché vedevo, in confronto con l’impressionismo del mio maestro di allora, un mondo non casuale: questa solidità della figura mi entusiasmò. E trovare che, attraverso questa solidità, arrivavi a quello che si chiama monumentale, solenne, o come si vuole. È questa solennità (e con la parola “solenne” siamo già vicini al sacro…) che ha fatto sì che Lorenzo Milani ed io ci siamo capiti.
Credo che qualcosa abbiamo chiarito…
Il sacro… è incluso. E questo lui non l’ha capito. E per questo ci siamo anche allontanati. Perché io, segretamente, gli facevo sempre questo rimprovero: “Tu non hai capito che questo è incluso”. Però lui ha poi trovato questa magnifica vita che ha avuto. Il fatto che dopo tanti anni parliamo ancora di Lorenzo Milani, che lui sia talmente presente, che questa figura sia così vibrante, che ancora porti all’entusiasmo molta gente. Che cosa vogliamo di più nella vita. Ha avuto una magnifica vita… Questi ragazzi che hanno studiato con lui, che arricchimento hanno avuto da questo incontro! In questo c’è la sua gloria… tutte le vessazioni che ha avuto nella Chiesa…
Il fatto che la madre abbia iniziato la pubblicazione del carteggio con l’entrata in seminario mi fa pensare che non volesse far conoscere com’era prima.
Forse. Glie lo domandi.
Finì il liceo…
È giusto. Credo che ritornasse a Milano in autunno. Io mi meravigliai molto che non continuasse a studiare con me. Sempre l’avevo sentito molto affezionato, molto interessato. Mi meravigliai: ma perché ritorna a Milano? Ora capisco. Allora va tutto bene. Perché nel 1941 in primavera, forse in marzo, ha cominciato a studiare con me. E siamo stati insieme fino a settembre, tarda estate.
E Pasquali non le aveva detto niente?
No, Pasquali non mi aveva detto… no. E poi, dopo non l’ho più visto. Non ricordo di aver parlato con Pasquali di Lorenzo.
La lezione di Calenzano…
Sì. Con le canzoni francesi… eravamo sempre in contatto con Lorenzo. L’ho visto diverse volte. M’interessava in quel momento. Lì era ancora un contatto molto vivo. Molto. Mi piacque l’idea di collaborare con lui. Lo trovavo originalissimo, lo ammiravo. Soltanto non lo vedevo tanto volentieri con questo vestito. Lui non stava molto bene col nero.
Le parolacce…
Trovavo che esagerasse con questi bambini, con queste bambine… parole come “bischeraccia” mi davano noia, non mi piaceva.
Ma quando lavorava nel suo studio…
Quando lo conobbi, io ero una specie di autorità. Non usava queste parole. Io l’ho sentito usare questo vocabolario soltanto dopo. E poi, in fondo, era anche un voler adattarsi al clima della gente. Lui voleva far credere a loro che lui fosse uno dei loro. Perciò adoperava queste parole.
Lo faceva anche ai tempi del liceo, scriveva parolacce anche nelle lettere…
A trent’anni m’iscrissi all’Accademia di Firenze. Ero stato amico di Felice Carena e lui rimase molto sorpreso: “Come mai questo pittore che si fa scolaro?”. E lì feci questa esperienza: mi facevano compassione questi ragazzi, che avevano 18-20 anni. Non avevano nessun profitto, per il fatto di avere un maestro che non diceva nulla. Allora… io nel frattempo avevo già capito qualcosa e comunicavo a loro quello che avevo capito. E quando, tre anni dopo, lasciai l’Accademia furono i miei colleghi e le mie colleghe a pregarmi di poter venire al mio studio come scolari. E con questo si è sviluppato un fattore molto importante della mia vita. Posso dire che l’insegnamento, cioè questa comunicazione delle mie esperienze, dopo tutto, molto personali, mi è diventato quasi altrettanto importante quanto la pittura stessa. E questo essere continuamente circondato da gente che vuole imparare da me, mi toglie ogni senso di solitudine, che spesso un artista può sentire. Non mi sento assolutamente un isolato. E invece ho creato una specie di piattaforma, sulla quale non sto fermo soltanto io, ma che serve agli altri. E, per esempio, quando mi ammalai, questi scolari e scolare arrivavano qui, all’ospedale, disperati perché temevano che io non venissi più allo studio. Capivo che qualche cosa avevo fatto. E lui, Lorenzo, fu uno dei primi a provarmi che insegnare era una cosa degna, qualcosa che valeva la pena di fare. Perché non avevo mai trovato in uno scolaro una veemenza come in lui. Proprio questa veemenza enorme, questo chiudersi col più bel tempo del mondo in uno studio polveroso, con la luce da nord, e fare una dozzina di disegni, è molto particolare… Però, come ho detto, qualcosa gli mancava sempre. Capivo che lui cercava di capire la pittura, cercava di capire quello che io gli volevo comunicare. Ma è sempre molto importante che tu veda nel lavoro di un tuo scolaro qualche cosa d’inatteso, che non gli hai dato tu, che venga fuori una sua interpretazione. Era soltanto una severa applicazione delle regole che aveva sentito. Io non ho mai creduto, neanche per un momento, che la pittura fosse la sua strada. Mai. E mi ricordo benissimo quando ad Arolo sul Lago Maggiore gli dicevo spesso: “Lorenzo, no, non metterti accanto a me”. E non gli dicevo neanche perché. “Cercati un altro posto”. E lui, dopo aver girato per una mezz’ora, finiva sempre per tornarmi accanto. Lui avrebbe dovuto aver capito abbastanza per prendere quanto aveva capito e adoperarlo davanti a un soggetto suo, no? Invece, ultimamente, uno o due anni fa, vidi in casa della madre delle cose che lui aveva dipinto probabilmente dopo questo periodo, dove trovo veramente una figura sua propria. Eppure non ha continuato. Paesaggi. Di figure non mi ricordo di aver visto qualcosa che mi avesse impressionato.
Io devo essere molto scortese, ma sono ancora abbastanza debole…
Dipinti ‘in parallelo’
Sono noti tre quadri di Staude, dipinti nel 1941, cui corrispondono tre quadri di Lorenzo Milani, evidentemente dipinti ‘in parallelo’, come descrive Staude nell’intervista [2]: La prima coppia di quadri è La casa degli Hildebrand, (Fig. 1 e 2) a Firenze, sotto la collina di Bellosguardo, vista, non dalla Piazza di San Francesco di Paola, sulla quale la casa si affaccia, ma dal podere, cioè da una prospettiva nota soltanto a chi possa accedere al terreno privato dietro la casa. Per questo motivo il soggetto è stato identificato soltanto recentemente: ancora nel 2001 il quadro di Staude era denominato Villa toscana, datato per errore nel 1947 ed esposto a Berlino con questi riferimenti. La data errata si trasmise al catalogo della mostra Don Lorenzo Milani e la pittura, dove i due quadri sono messi a confronto. Come racconta Susanna Ragionieri [3], Staude frequentava la casa degli Hildebrand probabilmente dal 1930; e come dimostrano i due quadri del 1941, appena ebbe conosciuto il giovane Lorenzo, lo portò con sé a dipingere nel campo dietro quella casa. Le altre due coppie di quadri dipinti ‘in parallelo’ nacquero nell’estate dello stesso anno durante il soggiorno di Lorenzo ospite degli Staude sul Lago Maggiore. Si tratta dei due dipinti di Staude (Fig. 4 e Fig. 6), da confrontare con i quadri del giovane Lorenzo (Fig. 5 e Fig. 7). Inoltre, Lorenzo dipinse il quadro Via delle Campora (Fig. 3) stando pressappoco sugli scalini della porta d’ingresso della casa in cui Staude abitava fin dal 1930. Di questa veduta, come di varie altre angolazioni dello slargo davanti a casa sua, Staude ha dipinto negli anni numerose varianti. Dopo la morte di Lorenzo, Alice Milani lasciò la versione da lui dipinta a Staude. Il fatto che anche di questo motivo esistesse un ‘quadro parallelo’ di Staude è da lui stesso testimoniato nell’intervista di Neera Fallaci riportata qui sopra, dove dichiara di averlo venduto, non sappiamo a chi.
J.S.
[1] Neera Fallaci: Dalla parte dell’ultimo. Vita del prete Lorenzo Milani. Milano Libri Edizioni, 1974. Già in questa sua opera Neera Fallaci fece ampio uso dell’intervista di Staude.
[2] Il testo qui sopra riprodotto dell’intervista che Neera Fallaci lasciò alla famiglia dopo la morte di Staude è stato pubblicato in: Hans-Joachim Staude (1904-1973) – un pittore europeo in Italia, a cura di Francesco Poli, Elena Pontiggia e Jakob Staude, Casa Editrice Centro Di, Firenze, 2017, pp. 130-139.
[3] Hans-Joachim Staude (1904-1973) – un pittore europeo in Italia, cit., p. 21.